jeudi 1 novembre 2012

Binari, di stanze






Ci sono dei momenti in cui un treno se ne va sulla linea biforcuta dei binari e su quel treno ci sono io che me ne vado insieme a lui. Perché io non riesco a stare più di qualche giorno nella stessa città, a differenza certi abitanti univoci che lasciano le loro macchine in certi parcheggi e vanno sempre in certi ristoranti e ai soliti lavori. Io ho bisogno di andare. Ciao mamma, ciao città. Vado.
Nel mondo ci sono altri paesi, alcuni al sicuro in mezzo ai campi fermi, altri in riva agli oceani e così spazzati dal vento che lì si trovano tutte le cose che ci sono state portate via. Via, appunto.
Ogni tanto sbarco in alcune di queste città, cercando di liberarmi di quell’aria da viaggiatore imbarazzato, a disagio nella meraviglia, con gli scontrini appallottolati in tasca e il pranzo al sacco figurato, il vento appiccicato ai capelli.
Di notte m’infilo nel mio letto nuovo, dopo esserci stato seduto sopra per un bel pezzo. Le federe sanno sempre di albergo, di novità e di lontananza. Poi ascolto i rumori che vengono da fuori, tra cui può esserci anche il silenzio e m’immagino la mia camera a casa, nella mia città, tutta sola, lontanissima da me lungo le strade, i binari e le rotte, separata dai fiumi, dai mari o da file di montagne.
A volte mi sembra impossibile possano esistere luoghi così tanto distanti, in cui io non possa essere contemporaneamente. E non sapendo dove mi addormento, non ricordo dove mi sveglio: potrebbe essere Malta o Colonia, Londra o Lisbona, Torino o Bologna. E’ come se i luoghi fossero un plico disordinato di appunti tenuti insieme da quattro pareti conficcate a mo’ di spillone: le città sono quasi potenzialmente infinite, mentre le stanze sono sempre le stesse.

il mio album

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