vendredi 1 mars 2013

LA FINE DELL'ANNO



Ballava. Ballava e ballava.
Lo guardava di tanto in tanto, tra le spalle e le nuche della gente intorno.
- È per accertarmi che tu ci sia – e dopo un attimo - ancora. - gli diceva ridendo. Era in un brutto locale stranamente centrale, con una stupida insegna al neon - planet qualcosa. Rideva e continuava a dondolarsi tra una canzone e l’altra, da un capo all’altro della sala. Tra le mani un calice di spumante.
Era l’ultimo dell’anno e aveva deciso di restare in città, perché sapeva che nessuno l’avrebbe trattenuta da qualche altra parte che non fosse stata quella (o aveva semplicemente deciso di crederlo).
- Sono tornati tutti, siamo soli io e te. -
Finché alle sei del pomeriggio, tra il grigio del cielo e i residui di neve sporca agli angoli delle strade strette si era scoperto che lui quella sera avrebbe lavorato.
Era una di quelle notti con l’alito pesante, ma ballare era bello e meglio non fermarsi, meglio preferisco continuare. Mezzore formate da occhiate sporadiche nella sua direzione e da qualcosa che scendeva sempre più giù, cercando di aggrapparsi a quelle frasi che si ripetevano continuamente in quel periodo, come un mantra, alle quattro di notte, seduti sul water, allo specchio, coi piedi sulle piastrelle di cotto mai abbastanza pulite e ruvide. Notti di tetti e jazz e camminate sotto il cielo di cotone con un cane al fianco che aveva il nome di un dio nero. Libertà e perline colorate, ecco quello che io ti darò, si cantavano tra le ciglia, in silenzio.
- Bollicine - dissero gli occhi di lei, un po’ appiccicati di mascara.
- Bollicine - risposero quelli di lui, che già sapeva.
Se l’erano detti sollevando i bicchieri, quando un tempo ad alzarsi erano state le braccia e le gambe, i capelli nei passi di corsa lungo la scala e le bottiglie piene a notte fonda, tra le biciclette e gli androni di certi palazzi antichi. Avevano mischiato quelle presunte intelligenze in degustazioni e progetti sul pavimento, attraversando marciapiedi e muri, abituandosi all’odore di colla sotto le unghie e alle conversazioni in bilico, all’eco dei passi quando salivano in mezzo alle piante umide appese ai mattoni e alla tromba in equilibrio sulla scrivania.
- Hai il nome di una pietra preziosa. -
- E tu i capelli di Mooglie. -
Si erano detti, annusando l’inizio dell’inverno.

Si avvicinò al banco, alto e pallido, simile a un pianoforte elettrico apparecchiato da bar.
- Buona sera, Silvia. Cosa ti servo? – le aveva detto un sussiego ostentato.
- Alcool, Alessandro. Meno, grazie. Va bene così. -
- Hai sentito che casino è successo? -
- Sì - disse lei.
Lui annuì lentamente, secondo un suo ritmo momentaneo, d’accordo con niente in particolare. Forse con qualcosa di antecedente, forse. Le riempì ancora il bicchiere di vino: bianco, frizzante, dolciastro. Lei lo guidò alle labbra fissando un punto tra i suoi occhi - che non l’avrebbero portata da nessuna parte e che non avrebbe più saputo ricordare - e vuotò il bicchiere, un sorso alla volta, finché non si sentì parlare in francese, seduta in un angolo della stanza, chiedendosi con chi e perché stesse sostenendo quell’assurda conversazione. La risposta: un ragazzo algerino, vestito di bianco, educato, complice: insopportabile.
- Je veux dancer… - disse alzandosi, senza sapere dove aveva letto che parlare in francese è quasi parlare senza parlare.
Quando attraversò il locale i suoi occhi le si aggrapparono addosso.
Riccardo la vide allontanarsi, la schiena nuda incorniciata dalla scollatura segnata da perline e paillettes.
Tornò indietro e si sporse un poco in avanti, verso di lui.
- Devo ancora aspettare? – gli disse.
- Non sapevo parlassi francese - fu tutto quello che ottenne come risposta.
- Neanch’io. Per quanto durerà? – insistette.
- Non lo so, dipende da quando vogliamo chiudere. -
- Allora torno a ballare. -

Si guardava i piedi e si chiedeva come facesse a starci in equilibrio sopra, su quelle scarpe troppo lucide che si muovevano su quel linoleum troppo bianco, calpestato da mille altri nello stesso momento. Poi successe qualcosa. 10… Improvvisamente si fermò, 9… improvvisamente stare eretta sulle proprie gambe era difficilissimo, impossibile. 8… Rischiò di cadere, scivolò… 7… qualcuno la tenne per un braccio, poi si lasciò andare. Si buttò a peso morto sul pavimento, ma nonostante questo estremo tentativo la tennero. 6… Voleva ricongiungersi al suolo, toccarlo. 5… Altro che bollicine, altro che valigie, altro che champagne. 4…
Riccardo dal bancone la vide gettarsi a terra e imprecare verso tutti i presenti, che iniziavano a farle calca addosso. Aveva la faccia pallidissima e il concio di capelli le si era leggermente disfatto, ora le pendeva da una parte, quasi perplesso. 3… Voleva un’ambulanza - che i gestori, l’ultimo dell’anno, avrebbero volentieri evitato di far arrivare: “ne andava dell’immagine del locale”. 2… Voleva un’ambulanza, voleva un’ambulanza, voleva un’ambulanza. La chiamò lei. Chiese l’indirizzo esatto del posto. Voleva soltanto andarsene, portarsi via quella disperazione che improvvisamente le era esplosa nel petto, rendendo ogni gesto impossibile. 1… Svenne tra le braccia di un’enorme infermiera e fu portata via.

Si risvegliò in una camera d’ospedale, circondata da lenzuola bianche e sovrastata da un soffitto grigio. Aveva i piedi scalzi sul letto e non poteva piegare il braccio sinistro a causa di un’enorme flebo che le spuntava all’altezza del gomito. Fuori dalla porta, nel corridoio, vedeva le luci ritmiche di un albero di natale lilla. Un nuovo anno era cominciato.

Sul pavimento, al mattino, mentre Alessandro spazzava, trovò alcune perline blu.

il mio album

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