Ballava. Ballava e ballava.
Lo guardava di tanto in tanto, tra le spalle e le
nuche della gente intorno.
- È per
accertarmi che tu ci sia – e
dopo un attimo - ancora. - gli diceva
ridendo. Era in un brutto locale
stranamente centrale, con una stupida insegna al neon - planet qualcosa. Rideva e continuava a dondolarsi tra una canzone
e l’altra, da un capo all’altro della sala. Tra le mani un calice di spumante.
Era l’ultimo dell’anno e aveva deciso di restare
in città, perché sapeva che nessuno l’avrebbe trattenuta da qualche altra parte
che non fosse stata quella (o aveva semplicemente deciso di crederlo).
- Sono
tornati tutti, siamo soli io e te. -
Finché alle sei del pomeriggio, tra il grigio del
cielo e i residui di neve sporca agli angoli delle strade strette si era
scoperto che lui quella sera avrebbe lavorato.
Era una di quelle notti con l’alito pesante, ma
ballare era bello e meglio non fermarsi, meglio preferisco continuare. Mezzore
formate da occhiate sporadiche nella sua direzione e da qualcosa che scendeva
sempre più giù, cercando di aggrapparsi a quelle frasi che si ripetevano continuamente
in quel periodo, come un mantra, alle quattro di notte, seduti sul water, allo
specchio, coi piedi sulle piastrelle di cotto mai abbastanza pulite e ruvide. Notti
di tetti e jazz e camminate sotto il cielo di cotone con un cane al fianco che
aveva il nome di un dio nero. Libertà e
perline colorate, ecco quello che io ti darò, si cantavano tra le ciglia, in
silenzio.
- Bollicine
- dissero gli occhi di lei, un
po’ appiccicati di mascara.
- Bollicine
- risposero quelli di lui, che già
sapeva.
Se l’erano detti sollevando i bicchieri, quando un tempo ad alzarsi erano state le
braccia e le gambe, i capelli nei passi di corsa lungo la scala e le bottiglie piene
a notte fonda, tra le biciclette e gli androni di certi palazzi antichi.
Avevano mischiato quelle presunte intelligenze in degustazioni e progetti sul
pavimento, attraversando marciapiedi e muri, abituandosi all’odore di colla
sotto le unghie e alle conversazioni in bilico, all’eco dei passi quando salivano
in mezzo alle piante umide appese ai mattoni e alla tromba in equilibrio sulla
scrivania.
- Hai il
nome di una pietra preziosa. -
- E tu i
capelli di Mooglie. -
Si erano detti, annusando l’inizio dell’inverno.
Si avvicinò al banco, alto e pallido, simile a un
pianoforte elettrico apparecchiato da bar.
- Buona
sera, Silvia. Cosa ti servo? – le
aveva detto un sussiego ostentato.
- Alcool, Alessandro. Meno, grazie. Va bene così. -
- Hai
sentito che casino è successo? -
- Sì -
disse lei.
Lui annuì lentamente, secondo un suo ritmo
momentaneo, d’accordo con niente in particolare. Forse con qualcosa di
antecedente, forse. Le riempì ancora il bicchiere di vino: bianco, frizzante,
dolciastro. Lei lo guidò alle labbra fissando un punto tra i suoi occhi - che
non l’avrebbero portata da nessuna parte e che non avrebbe più saputo ricordare
- e vuotò il bicchiere, un sorso alla volta, finché non si sentì parlare in
francese, seduta in un angolo della stanza, chiedendosi con chi e perché stesse
sostenendo quell’assurda conversazione. La risposta: un ragazzo algerino,
vestito di bianco, educato, complice: insopportabile.
- Je
veux dancer… - disse alzandosi, senza
sapere dove aveva letto che parlare in francese è quasi parlare senza parlare.
Quando attraversò il locale i suoi occhi le si aggrapparono
addosso.
Riccardo la vide allontanarsi, la schiena nuda incorniciata
dalla scollatura segnata da perline e paillettes.
Tornò indietro e si sporse un poco in avanti,
verso di lui.
- Devo
ancora aspettare? – gli disse.
- Non
sapevo parlassi francese - fu tutto quello che ottenne come risposta.
-
Neanch’io. Per quanto durerà? – insistette.
- Non lo
so, dipende da quando vogliamo chiudere. -
- Allora
torno a ballare. -
Si guardava i piedi e si chiedeva come facesse a
starci in equilibrio sopra, su quelle scarpe troppo lucide che si muovevano su
quel linoleum troppo bianco, calpestato da mille altri nello stesso momento. Poi
successe qualcosa. 10… Improvvisamente si fermò, 9… improvvisamente
stare eretta sulle proprie gambe era difficilissimo, impossibile. 8… Rischiò di
cadere, scivolò… 7… qualcuno la tenne per un braccio, poi si lasciò andare. Si
buttò a peso morto sul pavimento, ma nonostante questo estremo tentativo la
tennero. 6… Voleva ricongiungersi al suolo, toccarlo. 5… Altro che bollicine,
altro che valigie, altro che champagne. 4…
Riccardo dal bancone la vide gettarsi a terra e imprecare
verso tutti i presenti, che iniziavano a farle calca addosso. Aveva la faccia
pallidissima e il concio di capelli le si era leggermente disfatto, ora le
pendeva da una parte, quasi perplesso. 3… Voleva un’ambulanza - che i gestori, l’ultimo
dell’anno, avrebbero volentieri evitato di far arrivare: “ne andava dell’immagine
del locale”. 2… Voleva un’ambulanza, voleva un’ambulanza, voleva un’ambulanza.
La chiamò lei. Chiese l’indirizzo esatto del posto. Voleva soltanto andarsene,
portarsi via quella disperazione che improvvisamente le era esplosa nel petto,
rendendo ogni gesto impossibile. 1… Svenne tra le braccia di un’enorme
infermiera e fu portata via.
Si risvegliò in una camera d’ospedale, circondata
da lenzuola bianche e sovrastata da un soffitto grigio. Aveva i piedi scalzi
sul letto e non poteva piegare il braccio sinistro a causa di un’enorme flebo
che le spuntava all’altezza del gomito. Fuori dalla porta, nel corridoio,
vedeva le luci ritmiche di un albero di natale lilla. Un nuovo anno era
cominciato.
Sul pavimento, al mattino, mentre Alessandro spazzava, trovò alcune perline blu.