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jeudi 13 septembre 2012

The fault will be in music



Quando penso alle lavagne mi viene in mente quella drammaticamente statica del liceo, i gessi che cadevano di mano alla professoressa di matematica e quelli che consumava - fino a graffiare con le unghie l'ardesia – quella di lettere. Poi c’era stata la lavagna del gabinetto di fisica (sì, si chiamava proprio così, né più né meno: littoriamente), il secchio che la Lehrerin di tedesco usava per bagnare la spugna-cancellino e in fine la lavagna di solfeggio, coi righi sopra (5x4=20).
E’ una cosa, l'armonia, che chiunque sia un minimo sveglio imparerebbe in venti minuti, aveva detto una volta Varèse a Cage, o Cage a Varèse, poco importa, non vi spaventate, in questo tipo di operazione variando l'ordine degli addendi il risultato non cambia.
Mi rivedo a fissare - il mento sui pugni - quella lavagna (poi l'orologio, il muro, il pianoforte, la porta – la porta!) e i contorni di quei bozzetti che si riempivano fino a diventare – il più delle volte - palline bitorzolute. Stratificazioni di segni, saperi invisibili e sedimentati - come la roccia che li ospita - e il cancellare, per una volta più importante dello scrivere.
E il mio insegnante cancellava, cancellava: non gli piacevano mai quei cerchietti bitorzoluti che uscivano dai suoi gessi bianchi. Aveva gomme schierate su tutte le matite, indizio sufficiente a farmi sospettare di essere un seguace di Schönberg (un altro famoso cancellatore). E in tutto questo, ogni tanto avvertivo qualcosa di sbagliato, di stridente, di anacronistico e quasi inutile.
Perché non provare allora a mettersi in bocca quei suoni senza leggerli, ma pronunciandoli seguendo un discorso coerente - non in tema di struttura, ma di linguaggio? Rispondere a nota con nota, a ritmo, incalzando quel respiro necessario nella musica quanto nella vita? Improvvisare: reagire e dare uno stimolo, un impulso, fino ad arrivare alla sintassi jazzistica (per lo meno di un certo tipo di jazz – di quel jazz "superato", standard, normale, quello di tutti quanti che lo vogliono fare) - non meno di quella "classica" (o se proprio vogliamo "colta") - che segue l'andatura binaria degli scacchi. Come scrisse Cage (a proposito di Jasper Johns): “Ci sono diversi modi per procedere in una partita. Uno è ritirare una mossa quando diventa evidente che fosse sbagliata. L'altro è accettarne le conseguenze, per quanto devastanti.” E questo è valido per le parole, le note, l'armonia, le battaglie e tutti i massimi sistemi, la morte, le piccole americane, le corse d’auto, i concerti per clarinetto, la polizia, le pin-up, i romanzieri, Humphrey Bogart, Picasso, i fotografi italiani, gli anarchici, i magnetofoni, le avventure, l’amore, i Campi Elisi, la paura - e dio creò - la vita, fino all’ultimo respiro.



mardi 2 novembre 2010

POSTER

Architettura non é imitare parole, è rispondere a dei problemi.
Un canneto non mi basta, un canneto non è architettura, un canneto è un canneto. L'architettura non può essere un canneto. Sarebbe un esercizio, sparare a un concetto - peggio, ad una parola, a un nome - e metterlo sottovetro con uno spillone conficcato nel petto. Bang.
L'architettura non può imitare parole, non può tradurre nomi comuni.
L'architettura non é un linguaggio di questo tipo e anche se la si riconoscesse come tale non si potrebbe limitare un intero sistema a frammenti, che frammenti non sono - poiché il frammento presuppone un insieme. Architettura non è forma che imita parola.

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