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dimanche 20 janvier 2013

Elucubrazioni post-riots




La macchina è stata fatta per fare quello che non fa o non vuole - o non può - fare l’uomo, e la macchina, in questo suo fare, produce e consuma sempre qualcosa, come tutti noi (eccetto i fortunelli all’oscuro della seconda legge della termodinamica, ma andiamo avanti). La macchina istruita per produrre testi narrativi continuerà a sfornare combinazioni per cercare di creare il libro perfetto d questa cosa della bellezza a tutti i costi, questa ricerca della bellezza “perfetta” mi fa pensare alle incisioni musicali – e non alla musica elettronica, come ha detto qualcuno.

Non lo penso per far contenti quelli che ricercano a tutti i costi le omologie tra i fatti letterari, storici, sociologici, economici eccetera, come scriveva Calvino, ma perché: a) è quello che faccio – musica, intendo – e quindi è un problema che mi riguarda b) rientra nella famosa convergenza. E ora spiegatemi perché, quando mi presento come architetto, music-ista (musico, musicante?) e ora apprendista scrittore, mi sento immancabilmente dire, con un sorrisetto, da voi come da altri: ecco un’indecisa. No, non sono indecisa, anzi, tutto il contrario. O almeno, non nel modo che intendete voi. Quindi, come evitare di interpretare la molteplicità come divergenza, quando di convergenza si dovrebbe trattare?
A questo proposito, quando in “cibernetica e fantasmi” (quel saggio di Calvino - sì, sempre lui, e allora? - sui labirinti e le soluzioni e i paradossi, le mappe e i lettori) si parla di discrezione, di discernimento inteso come separazione, non si dovrebbe invece pensare a una “comprensione”. E il discernere non dovrebbe essere inteso più che come un separare, come un scegliere, un “discriminare”? Che comunque è compiere una divisione: la separazione del famoso frammento che sottintende il tutto (non credo che “presuppone” vada altrettanto bene), e quindi una continuità non più fluida ma frammentata. Che procede per interruttori: 0/1, sì/no, on/off, acceso/spento. Sistema binario, appunto. Dev’esserci una parte “etica” in questo separare, in questo scegliere, che però comprende le varie parti.

Tornado alla ricerca/bellezza del libro perfetto, non è esattamente come ascoltare una registrazione (parlando di quella musica che adesso si dice colta)? La maggior parte degli ascoltatori ingenuamente crede che le incisioni vengano raccolte in una dimensione simile al live. E non è così. Le incisioni sono una serie infinita di ripetizioni e riassemblaggi di frammenti, su cui le macchine controllano severamente la performance umana, sfruttandola fino al raggiungimento di una perfezione “meccanica”. Non artistica, perché quello che conta in un disco “tradizionale” è che gli strumentisti siano a tempo e intonati secondo un diapason dato. Punto. Per non parlare della distorsione e dei false credenze che l’ascolto “a domicilio” ha portato nell’orecchio e nell’immaginario mondano dell’ascoltatore, ottenendo come risultato gente - critici (per quanto questa etichetta possa valere, ma meglio non cadere in frecciatine karlkrausiane, che hanno tutta l’aria di essere una malattia rara delle guide di quel famoso Parker che secondo alcuni è l’autore più prolifico della storia, dati alla mano – anche più di Alessandro Baricco e Banana Yoshimoto, sì) e quant’altro – che vieta ai puri di spirito e di orecchie - i beati ignoranti (e dico beati senza ironia, immaginatevi poter ri-ascoltare per la prima volta il quintetto di Schubert – quello serio, non “la trota” – per la prima volta) - di applaudire tra i vari movimenti di una sinfonia (magari classica, ai cui tempi il pubblico non si comportava certo in maniera molto diversa da quello che si trovava ad assistere alle opere di Shakespeare). E questo perché l’incisione - perfetta - ci ha abituati al silenzio tra le parti, anche quando questo silenzio non è immaginato. E si continua a ripetere un rito errato, passato ma non antico. Ma anche questo non è un paragone perfettamente aderente, dato che il disco è una sorta di “spin off” della partitura, del linguaggio già assemblato e scritto.

Una macchina oggi potrebbe tranquillamente scrivere un quartetto, una sinfonia di Haydn, ma anche di Mozart (altro problema, Calvino elimina l’ispirazione, ma il genio – quello vero, il fuori classe - a quel punto dove si collocherebbe?), per non parlare di Bach, che ha praticamente scritto come se fosse un ordigno programmato (nel senso più nobile dell’espressione). Dato che di linguaggio si tratta, ottenere un brano musicale sarebbe ancora più facile che ottenere un libro, non fosse per il numero spaventosamente ridotto delle note (e degli intervalli e delle tonalità, se proprio vogliamo far numero) rispetto al sistema linguistico delle parole. Eppure nessuno di scandalizza in questo caso, forse perché oggi nessuno vorrebbe più scrivere una sinfonia classica. E questo mi fa venire in mente i modelli che i pittori (a ondate di epoche) ripetevano e ripetevano (si pensi all’iconografia imposta dalla controriforma), questo ripetere infinito di un modello dato, non è simile a quello che fa la macchina? Non siamo più simili alle macchine di quello che crediamo? E le macchine in fine non sono forse state create a nostra immagine e somiglianza?

jeudi 13 septembre 2012

The fault will be in music



Quando penso alle lavagne mi viene in mente quella drammaticamente statica del liceo, i gessi che cadevano di mano alla professoressa di matematica e quelli che consumava - fino a graffiare con le unghie l'ardesia – quella di lettere. Poi c’era stata la lavagna del gabinetto di fisica (sì, si chiamava proprio così, né più né meno: littoriamente), il secchio che la Lehrerin di tedesco usava per bagnare la spugna-cancellino e in fine la lavagna di solfeggio, coi righi sopra (5x4=20).
E’ una cosa, l'armonia, che chiunque sia un minimo sveglio imparerebbe in venti minuti, aveva detto una volta Varèse a Cage, o Cage a Varèse, poco importa, non vi spaventate, in questo tipo di operazione variando l'ordine degli addendi il risultato non cambia.
Mi rivedo a fissare - il mento sui pugni - quella lavagna (poi l'orologio, il muro, il pianoforte, la porta – la porta!) e i contorni di quei bozzetti che si riempivano fino a diventare – il più delle volte - palline bitorzolute. Stratificazioni di segni, saperi invisibili e sedimentati - come la roccia che li ospita - e il cancellare, per una volta più importante dello scrivere.
E il mio insegnante cancellava, cancellava: non gli piacevano mai quei cerchietti bitorzoluti che uscivano dai suoi gessi bianchi. Aveva gomme schierate su tutte le matite, indizio sufficiente a farmi sospettare di essere un seguace di Schönberg (un altro famoso cancellatore). E in tutto questo, ogni tanto avvertivo qualcosa di sbagliato, di stridente, di anacronistico e quasi inutile.
Perché non provare allora a mettersi in bocca quei suoni senza leggerli, ma pronunciandoli seguendo un discorso coerente - non in tema di struttura, ma di linguaggio? Rispondere a nota con nota, a ritmo, incalzando quel respiro necessario nella musica quanto nella vita? Improvvisare: reagire e dare uno stimolo, un impulso, fino ad arrivare alla sintassi jazzistica (per lo meno di un certo tipo di jazz – di quel jazz "superato", standard, normale, quello di tutti quanti che lo vogliono fare) - non meno di quella "classica" (o se proprio vogliamo "colta") - che segue l'andatura binaria degli scacchi. Come scrisse Cage (a proposito di Jasper Johns): “Ci sono diversi modi per procedere in una partita. Uno è ritirare una mossa quando diventa evidente che fosse sbagliata. L'altro è accettarne le conseguenze, per quanto devastanti.” E questo è valido per le parole, le note, l'armonia, le battaglie e tutti i massimi sistemi, la morte, le piccole americane, le corse d’auto, i concerti per clarinetto, la polizia, le pin-up, i romanzieri, Humphrey Bogart, Picasso, i fotografi italiani, gli anarchici, i magnetofoni, le avventure, l’amore, i Campi Elisi, la paura - e dio creò - la vita, fino all’ultimo respiro.



dimanche 11 juillet 2010

When I grow up I want to be david






"I think it is a man. I had never seen a man, but it looked like one, and I feel sure that that is what it is. I realize that I feel more curiosity about it than about any of the other reptiles. If it is a reptile, anf I suppose it is; for it has frowsy hair and blue eyes, and look like a reptile. It has no hips; it tapers like a carrot; when it stands, it spreads itself apart like a derrick; so I think it is a reptile, though it may be architecture."
Mark Twain
The Diary of Adam and Eve

jeudi 22 avril 2010

Postponderazioni


Imbarazzo. Davanti all'inconsapevolezza e alla discoscienza (incoscienza presupporrebbe di averne una e la scelta di negarla, e “mis“ di fare una scelta “sbagliata” con il formarsi di uno scarto) musicale del pubblico presente ai concerti. A TUTTI i concerti: ai concertucoli di cantanti poppastri, ai concertini di gruppetti rock e alle grandi markette di lusso della musica “colta”. Il pubblico rimane sempre lo stesso, tutt'al più varia la decade dei natali e il soprabito lasciato in guardaroba. Pubblico. Pubico.
Ad un concerto si può: osservare gli altri assistenti nell'attesa che le luci calino (o anche durante, nella penombra), vedere le loro facce e chiedersi come mai tengano il cappello in un luogo chiuso, che in alcuni casi risponde con più sicurezza al requisito di non far piovere sulle loro teste che a quello di non crollare sulle antecitate. Perplessità, plurali. Altra possibile e quasi doverosa occupazione per chi non sia sordo ed abbia voluto partecipare: ascoltare. Auscultare. Non sentire. Non è una cosa che succede per caso. Non odi una leopardiana melodia girando l'angolo della strada proveniente da uno studente che si sta esercitando per il diploma di violino o da uno zingarello (che probabilmente tiene l'arco più dritto del precedente), sei in un teatro. Teatro: edificio destinato a rappresentazioni. Funzione definita. Architettura specialistica. Hai pagato un biglietto per ascoltare, assecondato una volontà. E quindi, perché una volta seduto - o in piedi, con la pelliccia - o il chiodo, poi, all'inizio - o durante o alla fine, non fai quello che hai addirittura aspettato di poter fare?
Perché il 13 Gennaio il pubblico, docile, ha aspettato per quasi un'ora - in ritardo ingiustificato - l'arrivo di Morgan? Perché poi, dopo la prima mezz'ora di spettacolo casuale - nemmeno aleatorio, nessuno ha lasciato la sedia indignato? Sono rimasti tutti a guardare - e a subire - un giullare, su un palco, che violentava in maniera barbara numerose possibili e varie idee di musica - su un brutto pianoforte. Perché tutti hanno avuto un “o-oh” di stupore-misto-ammirazione quando all'inizio ha malamente copiato, in maniera sciocca e anacronistica, le esperienze di ricerca musicale degli anni '60 (spero fosse una provocazione, che comunque generalmente nessuno a portata dei miei occhi ha colto)? Perché? Il nostro paese è pieno di furbastri semintellettuali che sfruttano la non-conoscenza degli spettatori, oramai privati di qualsiasi strumento critico.
Sperando che prima o poi il pubblico si alzi.

il mio album

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