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mercredi 6 février 2013

UN RITIRO



C’è chi smette di scrivere poesie, c’è chi smette di studiare matematica, io per esempio – a studiare matematica - non avevo mai iniziato, ma avevo smesso di credere in me stessa e nelle cose ad un certo punto, questo sì.
L’episodio culmine - il climax, come si dice - era stato il ritiro al Campaccio, ma avevo già un precedente alle spalle da qualche parte tra Trento e Bolzano.
La prima volta che mi ero fermata.
Improvvisamente, avevo deciso di smettere, come un mulo che da un momento all’altro si blocca. Punto, stop e non c’è verso di farlo andare avanti. Salopek una volta disse che se decidi di muoverti su un mulo, devi darti il tempo di imparare a maneggiarlo, perché è più difficile di far volare un aeroplano - e probabilmente aveva ragione. Comunque, era passato in sordina, come un sintomo trascurato. Ma quella era stata la prima crepa, quella che inosservata avrebbe continuato a lavorare lentamente fino a far franare la diga, che imbrigliava a monte un numero imprecisato di tonnellate d’acqua, un’enorme quantità di energia potenziale, ma distruttiva.
Correvo tra i filari di vite, in salita. I passi brevi e sincopati erano scosse ai polpacci, le caviglie stavano all’erta per prevedere gli smottamenti delle zolle di terriccio calcareo, di un colore tenue che mi passava sotto gli occhi salendo.
Non avrebbe avuto senso guardare la sommità del percorso, non eravamo in pianura, non c’era un orizzonte a cui tendere, ma solo un crinale, che copriva come una quinta il cielo, azzurro. Sembrava di salire lungo una scala verticale, di arrampicarsi come stambecchi, con un centimetro di alluminio conficcato per terra al posto dello zoccolo. Curva, a destra, sta pronta, non lasciarle passare. Via. E si riscendeva, ancora. E di nuovo, su. Quanti filari c’erano? Iniziavo a chiedermelo e questo non è mai un buon segno. Il punto è arrivare decorosamente alla fine. Era la mia prima volta.
Mi ricordo di esser stata improvvisamente avvolta da una repentina dolcezza. Saliva tiepida in bocca, sudore sulle labbra. Ero ferma, in discesa. Lasciai passare tutte, piegata in avanti, le mani appoggiate sulle ginocchia tese. Le gambe in fiamme. Il sole sulla nuca e l’aria fresca che stuzzicava i capelli bagnati. Mi alzai e raggiunsi il cordone che delimitava il percorso, lo sollevai sopra la mia testa. Ero fuori.
Due signori che avevano assistito la scena mi regalarono una bottiglia di vino, di Marzemino per la precisione, tipico di quella valle, la Val Lagarìna - nome che notai campeggiare sul mio pettorale fissato alla maglietta lenta da quattro spille traballanti.
Tutta quella strada tra le montagne e le nuvole per nulla. Per segnare un meno, una delusione. Una fuga. Avevo dimostrato a me stessa che si poteva non fare, che si poteva scappare dalle cose, anzi, ritirarsi. Bartlebismo. Preferirei di no.
Sarei stata tenuta a dare delle spiegazioni che non diedi mai. Quello che era successo tra quelle montagne era diventato un tabù di cui non avrei mai osato parlare.
Gianni, il mio allenatore, mi aveva accompagnata apposta, fin lì, in macchina. Era passato alla mattina presto, eravamo partiti soli. Nessun’altra della squadra aveva voglia di buttarsi in un’impresa simile saltando l’unico giorno di vacanza dagli allenamenti, la domenica, giorno di gare.
Era metà Febbraio e c’era una luce che sembrava filtrata da un bicchiere di Albana. Tutto era finito così, asciugatosi in un raggio di luce, attraversato dall’aria pungente. Eravamo tornati a casa sereni, contenti lo stesso, facendo come se niente fosse, evitando l’argomento.
La seconda volta - l’ultima - invece, dopo un anno che aspettavo quell’occasione, dopo la soddisfazione di esser stata scelta per gareggiare, ero scoppiata in lacrime correndo, a quello che credo essere stato il terzo giro, subito dopo la violentissima discesa di una collinetta. Buche, radici, zolle di terra scalciate da chiodi di una lunghezza leggendaria, di cui taluni dubitavano persino dell’esistenza, schizzi di fango ed erba in bocca, sugli occhi. Aveva piovuto tutta notte, tanto che nel tre stelle accanto alla stazione io e le altre ragazze avevamo fatto fatica ad addormentarci, tra i treni in partenza e gli scrosci d’acqua, prevedendo il peggio. Il terreno doveva essere un disastro. E tifo, ovunque: uomini che urlavano, allenatori, cronisti, compagni, sconosciuti, un altro giro, altra gente, l’altoparlante, il sensore per la fotocellula alla caviglia, imbrigliate in un box alla partenza, come i cavalli - non avevo retto. Stop.
In lacrime, ansimando tra la stanchezza e i singhiozzi avevo sollevato la cordella un'altra volta ed ero uscita dal tracciato di gara, senza voltarmi indietro. Forse, prima di decidere - perché si deve sempre decidere di fermarsi: non ci si ferma perché non ce la si fa più, no, quello non è mai il motivo, o forse è il motivo di chi non corre; c’è sempre un momento esatto, in cui stringendo i denti, scuoti la testa e dici basta. Forse prima di decidere, dicevo, avevo voltato lo sguardo verso qualcuno, in cerca di qualcuno e del sostegno che poteva darmi, ma quel qualcuno in mezzo alla folla non l’avevo trovato, o forse mi era solo sembrato di non vederlo e avevo perso le speranze. Comunque fosse, quella era stata la mia ultima gara.

jeudi 6 décembre 2012

LOVE ME TENDER



Mi chiamo Paolo, ho trent’anni, non sono un duro.
Vado al lavoro in motorino soltanto perché mi hanno rubato la bici, una settimana fa. Aveva un bel telaio pesante. Era del ’50, era bella. Pareva appena uscita da un film in bianco e nero, di quelli che sul dizionario del cinema sono segnati all’aggettivo “neorealista”. Aveva le sospensioni per la ruota anteriore, cose che servivano quando in bicicletta ci si facevano i chilometri, tutto il giorno, in tutte le stagioni. Quando le biciclette erano macchine più eleganti, più scomode e giuste.
Al mattino mi aggrappavo a quel manubrio ampio da nonno, dirigendomi al lavoro. Pedalata su pedalata, a ondate di movimento, il vento tra i filetti di capelli bagnati che cercavano sempre di rifugiarsi dietro l’orecchio, il corpo che tirava contro i tubi di ferro, in simbiosi perfetta, diventato ormai parte armonica dell’ingranaggio.
Non mi piacciono i pneumatici, non mi piace il rumore che emette quel motorino, quello scooter – che sembra il soprannome di qualche ragazzino disinvolto e inglese – la motoretta, il motore - dio benedica i romagnoli.
Mi è stato prestato da un amico.
- Sicuro che non ti serva? -
Avevo sperato, ficcandomi le unghie nel palmo della mano, che la risposta fosse sì, o no, insomma, che gli serviva, che non potesse darmelo, che si era confuso: che liberazione!
E invece no, eccolo lì, quel coso ingombrante e fastidioso.
Finché una mattina non parte: tossisce, borbotta, ma non si accende. Pure traditore.
Mi incammino verso la fermata del bus, sotto un cielo molle di nuvole. Se alzassi la testa ora vedrei il balconcino di casa - tra le ringhiere le piante aromatiche asfissiate dallo smog - e subito a fianco il pannello di finta edera dei vicini – santo - tra poco inizieranno anche la loro scalata i babbi natale. Perché l’essere umano si ostina a farsi del male?
- E adesso? - lo sguardo corre in alto verso i cartelli gialli.
- 34, 61, 72. -
- 101, 16, 4. -
- 18. Perché sarà a parte questo? - sì, talvolta parlo da solo, non fateci caso.
Le traiettorie dei mezzi pubblici continuano a cambiare: navette, tram, minibus, starbus, stardust, successive mutazioni ibride tra binari e ruota, arancione e blu. Di quando in quando qualcuno che si perde e muore, alla deriva in una rete di nodi ingarbugliati, di passeggeri che fanno la fine dei pesci asfissiati in un sistema di relazioni sotto controllo.
C’è una quantità di cartoncini appesi al palo come addobbi natalizi che tentano di esplicare ai profani gli orari nei rispettivi periodi del giorno, della settimana, dell’anno. Non c’è una freccia che indichi la giusta direzione. Inchiostro sciolto da alcuni pomeriggi di pioggia, informazioni rese illeggibili dal tempo e dalla mia inettitudine.
- Scusami, sai mica dirmi qual è il numero per Porta Palazzo? -
Un furgoncino, passando a tutta velocità, copre la fine della mia domanda, che risuona solo tra le membrane della mia testa, ma la ragazza intuisce quello che manca e mi indica un tram che sta arrivando proprio in quel momento. La interpreto come una risposta e salgo su. Lei mi è dietro.
Si siede in quella che sembra una poltroncina da barbiere d’altri tempi. Ha il viso ovale, il mento poco pronunciato, una sciarpa spessa da cui sfuggono gli auricolari, per poi rituffarsi sotto le ciocche di capelli.
Sui mezzi ognuno si muove seguendo la propria musica, aspetta secondo il suo ritmo, ma a volte ci sono due accenti consonanti, o un battere e un levare perfettamente a tempo.
Il tram è pienissimo, impossibile non toccare nessuno, il contatto è imposto: dita tozze, pance, braccia. La guardo. È bella, sottile come una bici da corsa.
Qualche volta anche lei si gira e mi guarda, ma non sono sicuro si rivolga proprio a me, magari è qualcosa fuori dal vetro che ha attirato la sua attenzione, o sta pensando ad altro. Mi saranno rimasti incastrarti fra i denti quei pezzi di foglioline? Mi succede sempre con l’insalata. Perché non ho controllato prima di uscire? Stupido.
Che buon odore, però, sulle dita. L’odore di un ricordo. Limonella, mentuccia, Germania e Danimarca, il giardino dietro casa, in campagna, dove passa il treno.
Con la fronte appoggiata al vetro, dondolando al lento avanzare del tram mi vengono in mente i campi morbidi e l’erba tenera che cresce dopo i temporali, l’humus soffice sotto le suole. Quando decido di muovermi per raggiungerla, lei si alza, per scendere.
Cerco di farmi spazio tra la gente, ma quando raggiungo l’uscita, la porta mi si chiude in faccia. Lei è fuori, ferma sul marciapiede. Mi guarda fisso, con un’aria leggermente interrogativa, come l’ultima patatina arrosto del vassoio.
- Perché non sei sceso? - sembra dirmi.
Anche io la guardo. E per dio, correrei giù, la inseguirei, romperei un finestrino pur di raggiungerla, ma non lo faccio. Non lo faccio.
Il tram riparte con uno scarto brusco e inizio a battere sul vetro. Prima lentamente, con dei tonfi sordi, ripetuti, larghi, che non servono ad attirare l’attenzione di nessuno, poi sempre più veloce, sempre più forte, con sempre più impeto, finché non mi viene intimato di scendere. È solo allora che mi accorgo di piangere. Le lacrime calde mi inondano il viso, le guance, si raccolgono sulla punta del mento, mi impregnano la barba, scendono lungo il collo, bagnano le punte della camicia, inarrestabili nella loro corsa incoraggiata dalla forza di gravità. 



mardi 4 décembre 2012

UN TESTAMENTO


13 Luglio 1908

La signora del letto 26 questa mattina si è svegliata con un pensiero: rimuovere quelle grandi macchie del pavimento accanto al mio letto.
"Non sta bene! Gliel'ho detto al dottor Mattei!"
E’ venuta coi fazzoletti, ripassando con l’orlo della camicia da notte sporca, ma le macchie non se ne vanno. E adesso attorno al mio letto si è creato un congresso di infermieri spostatori e pulitori e parenti di pazienti che disquisiscono ad altissimi livelli su cosa possa aver creato quelle macchie.
Modera il dibattito la signora del letto 26. Io leggo e mi vengono in mente le macchie di fondi a rendere rovesciati al mercato di piazza Sant’Ambrogio.


15 Luglio 1908

La signora del letto 26 compie oggi 10 giorni nel letto 26.
Mentre facevamo la nostra passeggiatina nel corridoio, abbiamo sentito venire dalla stanzetta delle sorelle una voce forte e chiara che diceva: “Oggi si dimette la signora del letto 26.”
Lei, allora, stretta al mio braccio ha sussurrato "sorreggimi".

Corre a letto, s’infila sotto strati di coperte ancora con la vestaglia addosso e si finge addormentata. "E' per il giro dei termometri!" dice.
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E’ di turno suor Muselina, come la chiama la signora del letto 26, che è certamente poco contenta di fare il suo mestiere e quando parla riversa tutta la sua frustrazione sui degenti.
Si chiama così perché l’altro giorno ha ripetuto a tutti la sua tremenda arrabbiatura con il cielo. Aveva steso ad asciugare un abito di mussola la mattina e ha piovuto tutto il giorno, lei era in servizio e non è potuta correre a salvarlo.

Questa sera nella stanza c'è un'aria effervescente. Non sono bastate le ingenti dosi di bromuro a far dormire i pazienti in fibrillazione: si parla di andare a messa al primo piano dello stabile. Domattina col te arriverà anche il curato, ma solo per me. 
Intanto, la signora del letto 26 è sfebbrata da quasi ventiquattro ore.
Avvicinandosi con la scusa di controllare che la vestaglia blu fosse appesa bene nel suo armadietto, mi ha confidato che sente sempre più vicine le dimissioni e controllava che tutti suoi averi fossero in ordine.
Domani mi trasferiscono in Sassonia, vogliono che sconti la pena là.


Firenze, 16 Luglio 1908

In nome della Santissima Trinità, Padre, Figliolo e Spirito Santo.
Col presente testamento, tutto scritto e sottoscritto di mia mano, dispongo della mia sostanza come segue:
1. Cedo la mia rivoltella Glisenti Modello 1872 a mia sorella Norma.
2. Dispongo che il mio cadavere sia cremato con legna di caprera e chiuso in un’urna di granito. Le ceneri saranno disperse sui colli di Fiesole.

Tale è la mia ultima volontà, che passo a sottoscrivere.
Bianca Ugolini testatrice.

***

Bianca Ugolini, di famiglia altolocata, era la figlia ventiduenne del sindaco di Vicchio, venne ghigliottinata per aver assassinato il suo fidanzato: ingegnere civile tedesco che rispondeva al nome di Hans Bach.
Durante il suo processo, la ragazza ammise di essersi recata il 13 Maggio 1908 dal giovane somministrandogli una bevanda contenente acido cianidrico. Per assicurarsi della morte della vittima, gli sparò alla bocca con il suo revolver. Cercò poi di fare apparire la scena un tragico suicidio, sviando per un mese buono le indagini della polizia.
Purtuttavia, le autorità trovarono una lettera nella quale la fanciulla confessava il crimine.
La sua esecuzione avvenne in Elbe la mattina del 23 Luglio 1908, nel cortile del Tribunale di Giustizia. Assistettero all’esecuzione circa centonovanta persone, tutte quelle che il luogo poteva ospitare.
Bianca era pallida, ma apparentemente calma. Indossava un abito nero, tagliato all’altezza del collo.

il mio album

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