C’è chi smette di scrivere poesie,
c’è chi smette di studiare matematica, io per esempio – a studiare matematica -
non avevo mai iniziato, ma avevo smesso di credere in me stessa e nelle cose ad
un certo punto, questo sì.
L’episodio culmine - il climax, come si dice - era stato il
ritiro al Campaccio, ma avevo già un precedente alle spalle da qualche parte
tra Trento e Bolzano.
La prima volta che mi ero fermata.
Improvvisamente, avevo deciso di
smettere, come un mulo che da un momento all’altro si blocca. Punto, stop e non
c’è verso di farlo andare avanti. Salopek una volta disse che se decidi di
muoverti su un mulo, devi darti il tempo di imparare a maneggiarlo, perché è
più difficile di far volare un aeroplano - e probabilmente aveva ragione.
Comunque, era passato in sordina, come un sintomo trascurato. Ma quella era
stata la prima crepa, quella che inosservata avrebbe continuato a lavorare
lentamente fino a far franare la diga, che imbrigliava a monte un numero
imprecisato di tonnellate d’acqua, un’enorme quantità di energia potenziale, ma
distruttiva.
Correvo tra i filari di vite, in
salita. I passi brevi e sincopati erano scosse ai polpacci, le caviglie stavano
all’erta per prevedere gli smottamenti delle zolle di terriccio calcareo, di un
colore tenue che mi passava sotto gli occhi salendo.
Non avrebbe avuto senso guardare
la sommità del percorso, non eravamo in pianura, non c’era un orizzonte a cui
tendere, ma solo un crinale, che copriva come una quinta il cielo, azzurro. Sembrava
di salire lungo una scala verticale, di arrampicarsi come stambecchi, con un
centimetro di alluminio conficcato per terra al posto dello zoccolo. Curva, a
destra, sta pronta, non lasciarle passare. Via. E si riscendeva, ancora. E di
nuovo, su. Quanti filari c’erano? Iniziavo a chiedermelo e questo non è mai un
buon segno. Il punto è arrivare decorosamente alla fine. Era la mia prima
volta.
Mi ricordo di esser stata
improvvisamente avvolta da una repentina dolcezza. Saliva tiepida in bocca,
sudore sulle labbra. Ero ferma, in discesa. Lasciai passare tutte, piegata in
avanti, le mani appoggiate sulle ginocchia tese. Le gambe in fiamme. Il sole
sulla nuca e l’aria fresca che stuzzicava i capelli bagnati. Mi alzai e
raggiunsi il cordone che delimitava il percorso, lo sollevai sopra la mia
testa. Ero fuori.
Due signori che avevano assistito
la scena mi regalarono una bottiglia di vino, di Marzemino per la precisione,
tipico di quella valle, la Val Lagarìna - nome che notai campeggiare sul mio
pettorale fissato alla maglietta lenta da quattro spille traballanti.
Tutta quella strada tra le
montagne e le nuvole per nulla. Per segnare un meno, una delusione. Una fuga.
Avevo dimostrato a me stessa che si poteva non fare, che si poteva scappare
dalle cose, anzi, ritirarsi. Bartlebismo.
Preferirei di no.
Sarei stata tenuta a dare delle
spiegazioni che non diedi mai. Quello che era successo tra quelle montagne era
diventato un tabù di cui non avrei mai osato parlare.
Gianni, il mio allenatore, mi
aveva accompagnata apposta, fin lì, in macchina. Era passato alla mattina
presto, eravamo partiti soli. Nessun’altra della squadra aveva voglia di
buttarsi in un’impresa simile saltando l’unico giorno di vacanza dagli
allenamenti, la domenica, giorno di gare.
Era metà Febbraio e c’era una luce
che sembrava filtrata da un bicchiere di Albana. Tutto era finito così, asciugatosi
in un raggio di luce, attraversato dall’aria pungente. Eravamo tornati a casa
sereni, contenti lo stesso, facendo
come se niente fosse, evitando l’argomento.
La seconda volta - l’ultima -
invece, dopo un anno che aspettavo quell’occasione, dopo la soddisfazione di
esser stata scelta per gareggiare, ero scoppiata in lacrime correndo, a quello
che credo essere stato il terzo giro, subito dopo la violentissima discesa di
una collinetta. Buche, radici, zolle di terra scalciate da chiodi di una
lunghezza leggendaria, di cui taluni dubitavano persino dell’esistenza, schizzi
di fango ed erba in bocca, sugli occhi. Aveva piovuto tutta notte, tanto che
nel tre stelle accanto alla stazione io e le altre ragazze avevamo fatto fatica
ad addormentarci, tra i treni in partenza e gli scrosci d’acqua, prevedendo il
peggio. Il terreno doveva essere un disastro. E tifo, ovunque: uomini che
urlavano, allenatori, cronisti, compagni, sconosciuti, un altro giro, altra
gente, l’altoparlante, il sensore per la fotocellula alla caviglia, imbrigliate
in un box alla partenza, come i cavalli - non avevo retto. Stop.
In lacrime, ansimando tra la
stanchezza e i singhiozzi avevo sollevato la cordella un'altra volta ed ero
uscita dal tracciato di gara, senza voltarmi indietro. Forse, prima di decidere
- perché si deve sempre decidere di
fermarsi: non ci si ferma perché non ce la si fa più, no, quello non è mai il
motivo, o forse è il motivo di chi non corre; c’è sempre un momento esatto, in
cui stringendo i denti, scuoti la testa e dici basta. Forse prima di decidere,
dicevo, avevo voltato lo sguardo verso qualcuno, in cerca di qualcuno e del sostegno
che poteva darmi, ma quel qualcuno in mezzo alla folla non l’avevo trovato, o
forse mi era solo sembrato di non vederlo e avevo perso le speranze. Comunque
fosse, quella era stata la mia ultima gara.