jeudi 13 septembre 2012

La cas(s)etta del giardiniere


Va revoir les roses. Tu comprendras que la tienne est unique au monde. 
Tu reviendras me dire adieu, et je te ferai cadeau d'un secret.

Le Petit Prince / Saint Exupéry




Nutro una particolare avversione verso i Mr. Gradgrind in genere, ma questa volta il modo di spiegare un nome diventa così semplice, spontaneo - naturale, è il caso di dire - che merita di essere riportato. 
«Che cos'è un giardino? Un recinto con al centro un fiore.» 
Questo l'archetipo, questa l'iconografia. 
Un giardino è una collezione di piante, una raccolta di oggetti viventi - oltre che vivi. Si colleziona per avere qualcosa che è lontano - raro, difficilmente raggiungibile - per poterlo avere vicino, a portata di sguardo e di mano. C'è qualcosa di voyeuristico nel raccogliere, catalogare, accumulare cose, siano esse piante, opere d'arte o chincaglierie - a maggior ragione se l'oggetto in questione è un fiore. Il primo museo naturale, istituito dal bolognese Ulisse Aldovrandi, non a caso fu chiamato "teatro naturale".
Scienziati, botanici, astronomi, topografi e geografi in qualità di plant hunters, partivano per spedizioni che potevano durare anni - o tutta la vita, in caso di febbri e malarie - in cerca di nuove specie, anche fungendo da mera copertura ad azioni coloniali. Nel Seicento la febbre dei fiori, la tulipomania, è stata la prima bolla speculativa documentata nella storia del capitalismo. La domanda di bulbi raggiunse un picco così elevato che ogni singolo pezzo raggiunse prezzi inimmaginabili. Il bulbo più famoso - perché di bulbi si trattava (non ancora di fiori) e quindi di investimenti ad alto rischio - (il Semper Augustus), fu venduto per 6000 fiorini: più de "La ronda di notte" di Rembrandt. All'epoca corrispondenti a una grande quantità di animali da stalla, otri d'olio, botti di vino e birra e svariate tonnellate di grano - tutto per un fiore, «my kingdom for a [flower]!»
La Passiflora - o Flos Passionis - era usata dai padri colonizzatori per indottrinare le popolazioni indigene: un utilissimo modello allegorico della passione di Cristo. I cinque petali e i cinque sepali rappresentano gli apostoli (eccetto Pietro e Giuda), i filamenti la corona di spine, i cinque stami le ferite e i tre stigmi i chiodi nella croce. A questa pianta piacciono i numeri dispari, il tre e il cinque. In Giappone, ironia della sorte, è invece stata assunta come simbolo dei giovani omosessuali. 
Questi fiori della lontananza - di cui non esistono specie europee o africane, che vanno dal bianco al violetto attraversando tutte le sfumature dell'iride, ma rifuggendo dostoevskijanamente il giallo - ci si mostrano come un variabile tirassegno concentrico, ipnotico per gli impollinatori. Maurizio Vecchia li cerca, ricerca, raccoglie e protegge nel suo giardino da quasi vent'anni, da quando lesse il libro "I frutti tropicali in italia", scritto da Guglielmo Betto - profusore di semi preziosi. Non venderebbe mai i suoi ibridi (tra cui la Fata Confetto) e la sua bellissima favola contemporanea non può che ricordarcene un'altra:




2 commentaires:

  1. ho sentito parlare della rappresentazione simbolica della passiflora pochi giorni fa, da parte di un missionario che lavora in ecuador.
    "indottrinare" è un eufemismo.
    hanno fatto il lavaggio del cervello a quelle popolazioni.
    e la cosa procede ahimè ancora oggi.

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  2. non immaginavo: il cattolicesimo non smetterà mai di stupirmi.
    parlandone si aprirebbe - temo - un discorso che - oltre a tendere a infinito - mi farebbe cattivo sangue, quindi preferisco rimanere sui fiori (che al più sono tossici) e sui collezionisti... e cercare di ricordare in quale diavolo di libro avevo letto di tutte quelle casse di tulipani, ma forse era Baricco, e forse era seta ed erano casse di qualcos'altro e a quel punto non mi interesserebbe più, quindi preferisco continuare a non scoprirlo.

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