jeudi 6 décembre 2012

LOVE ME TENDER



Mi chiamo Paolo, ho trent’anni, non sono un duro.
Vado al lavoro in motorino soltanto perché mi hanno rubato la bici, una settimana fa. Aveva un bel telaio pesante. Era del ’50, era bella. Pareva appena uscita da un film in bianco e nero, di quelli che sul dizionario del cinema sono segnati all’aggettivo “neorealista”. Aveva le sospensioni per la ruota anteriore, cose che servivano quando in bicicletta ci si facevano i chilometri, tutto il giorno, in tutte le stagioni. Quando le biciclette erano macchine più eleganti, più scomode e giuste.
Al mattino mi aggrappavo a quel manubrio ampio da nonno, dirigendomi al lavoro. Pedalata su pedalata, a ondate di movimento, il vento tra i filetti di capelli bagnati che cercavano sempre di rifugiarsi dietro l’orecchio, il corpo che tirava contro i tubi di ferro, in simbiosi perfetta, diventato ormai parte armonica dell’ingranaggio.
Non mi piacciono i pneumatici, non mi piace il rumore che emette quel motorino, quello scooter – che sembra il soprannome di qualche ragazzino disinvolto e inglese – la motoretta, il motore - dio benedica i romagnoli.
Mi è stato prestato da un amico.
- Sicuro che non ti serva? -
Avevo sperato, ficcandomi le unghie nel palmo della mano, che la risposta fosse sì, o no, insomma, che gli serviva, che non potesse darmelo, che si era confuso: che liberazione!
E invece no, eccolo lì, quel coso ingombrante e fastidioso.
Finché una mattina non parte: tossisce, borbotta, ma non si accende. Pure traditore.
Mi incammino verso la fermata del bus, sotto un cielo molle di nuvole. Se alzassi la testa ora vedrei il balconcino di casa - tra le ringhiere le piante aromatiche asfissiate dallo smog - e subito a fianco il pannello di finta edera dei vicini – santo - tra poco inizieranno anche la loro scalata i babbi natale. Perché l’essere umano si ostina a farsi del male?
- E adesso? - lo sguardo corre in alto verso i cartelli gialli.
- 34, 61, 72. -
- 101, 16, 4. -
- 18. Perché sarà a parte questo? - sì, talvolta parlo da solo, non fateci caso.
Le traiettorie dei mezzi pubblici continuano a cambiare: navette, tram, minibus, starbus, stardust, successive mutazioni ibride tra binari e ruota, arancione e blu. Di quando in quando qualcuno che si perde e muore, alla deriva in una rete di nodi ingarbugliati, di passeggeri che fanno la fine dei pesci asfissiati in un sistema di relazioni sotto controllo.
C’è una quantità di cartoncini appesi al palo come addobbi natalizi che tentano di esplicare ai profani gli orari nei rispettivi periodi del giorno, della settimana, dell’anno. Non c’è una freccia che indichi la giusta direzione. Inchiostro sciolto da alcuni pomeriggi di pioggia, informazioni rese illeggibili dal tempo e dalla mia inettitudine.
- Scusami, sai mica dirmi qual è il numero per Porta Palazzo? -
Un furgoncino, passando a tutta velocità, copre la fine della mia domanda, che risuona solo tra le membrane della mia testa, ma la ragazza intuisce quello che manca e mi indica un tram che sta arrivando proprio in quel momento. La interpreto come una risposta e salgo su. Lei mi è dietro.
Si siede in quella che sembra una poltroncina da barbiere d’altri tempi. Ha il viso ovale, il mento poco pronunciato, una sciarpa spessa da cui sfuggono gli auricolari, per poi rituffarsi sotto le ciocche di capelli.
Sui mezzi ognuno si muove seguendo la propria musica, aspetta secondo il suo ritmo, ma a volte ci sono due accenti consonanti, o un battere e un levare perfettamente a tempo.
Il tram è pienissimo, impossibile non toccare nessuno, il contatto è imposto: dita tozze, pance, braccia. La guardo. È bella, sottile come una bici da corsa.
Qualche volta anche lei si gira e mi guarda, ma non sono sicuro si rivolga proprio a me, magari è qualcosa fuori dal vetro che ha attirato la sua attenzione, o sta pensando ad altro. Mi saranno rimasti incastrarti fra i denti quei pezzi di foglioline? Mi succede sempre con l’insalata. Perché non ho controllato prima di uscire? Stupido.
Che buon odore, però, sulle dita. L’odore di un ricordo. Limonella, mentuccia, Germania e Danimarca, il giardino dietro casa, in campagna, dove passa il treno.
Con la fronte appoggiata al vetro, dondolando al lento avanzare del tram mi vengono in mente i campi morbidi e l’erba tenera che cresce dopo i temporali, l’humus soffice sotto le suole. Quando decido di muovermi per raggiungerla, lei si alza, per scendere.
Cerco di farmi spazio tra la gente, ma quando raggiungo l’uscita, la porta mi si chiude in faccia. Lei è fuori, ferma sul marciapiede. Mi guarda fisso, con un’aria leggermente interrogativa, come l’ultima patatina arrosto del vassoio.
- Perché non sei sceso? - sembra dirmi.
Anche io la guardo. E per dio, correrei giù, la inseguirei, romperei un finestrino pur di raggiungerla, ma non lo faccio. Non lo faccio.
Il tram riparte con uno scarto brusco e inizio a battere sul vetro. Prima lentamente, con dei tonfi sordi, ripetuti, larghi, che non servono ad attirare l’attenzione di nessuno, poi sempre più veloce, sempre più forte, con sempre più impeto, finché non mi viene intimato di scendere. È solo allora che mi accorgo di piangere. Le lacrime calde mi inondano il viso, le guance, si raccolgono sulla punta del mento, mi impregnano la barba, scendono lungo il collo, bagnano le punte della camicia, inarrestabili nella loro corsa incoraggiata dalla forza di gravità. 



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